Fabio, Roberto e Alberto Savi a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 seminarono il panico con i loro colpi: due di loro erano poliziotti
La storia della Uno Bianca, a oltre trent’anni dai fatti, è ancora viva nel ricordo collettivo. Non solo perché non è passato molto tempo dai drammatici eventi ma anche per il motivo che c’è chi parla ancora di misteri legati alla banda.
Quando i responsabili dei 109 colpi messi a segno tra il 1987 e il 19994 furono catturati, ci fu clamore perché cinque membri su sei che componevano la banda erano poliziotti.Tra questi i fratelli Fabio, Roberto e Alberto Savi con gli ultimi due in servizio presso la Questura di Bologna.
Roberto, classe 1954, era il più grande dei tre. Quando commetteva quei reati era in possesso di armi regolarmente registrate tra cui una Beretta AR 70. ll 4 gennaio 1991 ci fu la famosa strage del Pilastro e la polizia nel corso delle indagini scoprì che uno dei trenta possessori in tutta la regione dell’arma utilizzata era proprio Savi.
Il poliziotto aveva due fucili dello stesso tipo e quando per facilitare il lavoro della scientifica gli fu chiesto di portare quello in suo possesso, consegnò l’arma che non aveva sparato, acquistato solo qualche giorno prima della strage.
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Uno Bianca, le condanne di Fabio e Alberto Savi
Alberto Savi, nato nel 1965, è il più piccolo dei fratelli e risultato anche il più debole di carattere, subendo le pressioni di Roberto e Fabio. Condannato all’ergastolo nel 1994, è uscito temporaneamente la prima volta dopo 23 anni per le gravi condizioni di salute in cui versava la madre. Oggi è ancora in carcere e di tanto in tanto beneficia di qualche permesso premio.
Fabio Savi, classe 1960, è il secondo dei fratelli ma non riuscì a entrare in polizia per un difetto alla vista e lavorava come camionista e carozziere.
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Aveva una compagna più giovane di lui, Eva Mikula, una ragazza romena le cui denunce e testimonianze furono fondamentali per le indagini e le condanne. Condannato all’ergastolo, nel 2014 fece richiesta di tramutare la condanna a trent’anni di carcere ma non fu accettata dalla Corte d’Assise di Bologna.