Con il maxi-piano sul clima l’Ue prova a ribaltare anche gli equilibri geo-politici. L’ambizioso piano potrebbe essere forse il punto di svolta per le istituzioni europee che, però, dovranno fare i conti con gli equilibri ormai saltati all’interno della stessa Unione e con fattori esogeni che potrebbero rendere tortuosa la strada della cooperazione.
Se da un lato le premesse sono ben salde e promettenti, dall’altro, i dubbi sul maxi-piano promosso dall’Unione europea viaggiano fin dalla presentazione di ieri da parte della presidente della Commissione europea. Il piano, molto probabilmente il più ambizioso della storia, sarà, se dovesse essere applicato in ogni suo punto, un punto di svolta nella tutela del clima terreste. Gli effetti ormai tangibili del riscaldamento globale hanno, in modo indotto, costretto anche l’Ue a fare i conti con piani ampi e di notevole impatto, forse, così come per altre istituzioni e per la stessa comunità internazionale, in ritardo, innescando una corsa contro il tempo che – ha come punto focale il futuro del pianeta.
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La riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 e l’appiattimento delle emissioni a 0 entro il 2050, sono due misure ambizione, ma possibili e a portata di mano dell’Unione europea. Se gli Stati Uniti hanno portato gli uomini sulla Luna, ci chiediamo perché l’Ue non possa riuscire a rendere reale quello che per ora è solo un piano approvato dallo stesso parlamento; e su questo punto, molto probabilmente, l’Unione europea non ha poi avuto così tanto coraggio – difatti, la comunità scientifica chiedeva entro il 2030 un taglio delle emissioni pari al 65%, questione che hanno fatto notare anche i Verdi durante lo stesso dibattimento al parlamento europeo. Rimane sulla pentola delle questioni bollenti anche un altro fatto, quello che riguarda le eventuali difficoltà dei singoli stati di adempiere ai compiti dettati dalla stessa Unione europea: pensando ai Paesi del gruppo Visegrád, come la Polonia e l’Ungheria, per portare due esempi ben chiari, Stati rimasti in qualche modo indietro, soprattutto dal punto di vista strutturale (anche se un fondo per i Paesi più poveri dovrebbe garantire un apporto importante dal punto di vista finanziario – rimane comunque il rischio che possano essere penalizzati). Questo punto ha fatto sì che, il Consiglio e l’europarlamento trovassero una linea dentro l’argine, tanto che, l’obiettivo riguarderà l’Unione e non i singoli Stati, misura che ha fatto alzare qualche polverone. C’è poi il meccanismo definito Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), che costringerà le grandi aziende a pagare il conto per le emissioni prodotte per le importazioni in Europa. Questo meccanismo toccherà i settori altamente inquinanti, come quello del cemento, dell’acciaio, ma anche dei fertilizzanti e dell’alluminio.
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Il Piano Ue per il clima preoccupa però le case automobilistiche, che dovranno fare i conti con lo stop per la produzione di auto a benzina e diesel dal 2035, ma anche quelle plug-in, quindi con tecnologia ibrida. Stop anche per le auto a metano. In realtà, case automobilistiche come la Volkswagen, avevano già da tempo annunciato la fine della produzione per l’endotermico, preferendo a questo l’elettrico e con alimentazione ad idrogeno – una scelta che sembra premiare sul lungo periodo la casa made in Germany. La centralità della questione prefigura però l’implemento di una fitta rete di colonnine in tutta Europa e, lo stesso aumento delle imposte sui carburanti classici potrebbe portare ad una larga e vasta conversione delle stazioni di rifornimento, operazione dispendiosa che porterà con sé ingenti risorse – un punto che toccherà anche molte piccole e medie aziende e, proprio per questo l’Unione europea dovrà ripartire in modo equo le risorse disponibili. La transizione è dichiaratamente il disegno di un futuro più sostenibile che almeno sulla carta sembra avvicinarsi, all’insegna delle emissioni zero e di un nuovo modo di approcciarsi all’economia, ma la sfida sarà tutt’altro che semplice.