Alcune pagine della storia sono incancellabili, molte di queste in Italia sono state macchiate con il sangue delle vittime innocenti cadute per mano delle mafie: tra queste c’è il piccolo Giuseppe di Matteo, sciolto nell’acido da Giovanni Brusca con la sola colpa di essere il figlio di Santino di Matteo, collaboratore di giustizia. L’opinione pubblica si interroga e si indigna per la libertà concessa a Brusca, per fine pena.
L’uscita dal carcere di uno dei più sanguinari killer di Cosa Nostra e braccio destro di Totò Riina ha sollevato un dibattito pubblico molto importante. Per molti accettare che Giovanni Brusca possa essere libero è stato come un pungo nello stomaco. Altri invece depongono le armi davanti al “Dura lex, sed lex (Dura è la legge, ma è legge)” mossi da un principio di rispetto totale del diritto, anche quando i sentimenti griderebbero il contrario, quando questo può servire per aggiungere verità ad una storia piena di ombre. Le parole di Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone, descrivono appieno la volontà di voler rispettare il decorso della stessa lotta alla mafia: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata” ha detto Maria Falcone – ricordando come sia fondamentale che la magistratura e le forze dell’ordine tengano alta la vigilanza nei confronti di Brusca, visto lo spessore criminale del soggetto.
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La vita del piccolo Giuseppe di Matteo fu senz’altro ancorata al pesante cognome. Il padre Santino, fu arrestato nel 1993, accusato di aver commesso dieci omicidi – iniziò a collaborare con la giustizia poco dopo, rivelando anche alcuni dettagli relativi alle Stragi di mafia del 1992 e rivelò importanti informazioni sull’omicidio dell’imprenditore legato a Cosa Nostra, Ignazio Salvo. La collaborazione scatenò l’ira dei corleonesi e il 23 novembre del 1993 il piccolo Di Matteo fu rapito da falsi agenti della DIA, come raccontò lo stesso collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento. Giuseppe di Matteo fu poi consegnato ai suoi carcerieri, guidati dall’allora boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca.
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La prigionia del piccolo Di Matteo si compì nell’agrigentino, e fu poi trasferito a San Giuseppe Jato nel 1995, un anno prima che i suoi aguzzini compissero l’atroce gesto. Il tentativo dei corleonesi era quello di far tacere il padre Santino, in piena collaborazione. Le ricerche iniziarono fin da subito ma fu chiaro, a partire dalle prima battute, che la mafia avrebbe fatto muro contro muro, affinché il padre ritrattasse. Alcune lettere furono ricevute dalla famiglia – in un bigliettino, ricevuto insieme a due foto del piccolo Di Matteo, i mafiosi scrissero “Tappaci la bocca”. Un messaggio chiaro che condusse la madre a denunciare la scomparsa. Le minacce ai familiari proseguirono per diverso tempo. Cosa Nostra stava utilizzando come scudo un bambino rapito ad appena 12 anni, perché la favola che la mafia non toccasse i bambini è solo una favola – sia la cosiddetta vecchia mafia, e poi quella corleonese, post anni ottanta hanno fin dagli inizi storici ucciso innocenti vite ancora minori.
Il piccolo Giuseppe incontrò le mani maledette dei suoi killer, l’11 gennaio del 1996, il giorno in cui la Corte di Cassazione aveva emesso la condanna a Brusca. Lo stesso boss, catturato dall’ira per la condanna all’ergastolo ordinò l’uccisione di Giuseppe di Matteo, spezzando per sempre l’innocenza di un bambino, animato dai sogni, da un amore incondizionato per i cavalli e molto probabilmente desideroso di un futuro migliore. In un interrogatorio del 15 ottobre 1997 a Firenze, Brusca raccontò come Giuseppe Di Matteo fu sciolto nell’acido: “alla fine ho visto due lacrime, non so quanti minuti, quanti attimi. L’abbiamo messo nel bidone, abbiamo versato l’acido e la mattina dopo siamo tornati per pulire tutto […] tutte le tracce possibili e immaginabili.” Un racconto brutale che evidenzia la ferocia di quell’atto. A fare luce sull’accaduto è stato per primo Gaspare Spatuzza – in seguito il 18 marzo del 2013 sono stati condannati all’ergastolo Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, lo stesso Brusca, Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e Salvatore Benigno, in appello. Altri processi condannarono anche Cristoforo Cannella, Benedetto Capizzi, Leoluca Bagarella (a 12 anni), Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo.
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