Il vino prodotto con metanolo causò nel 1986 gravi lesioni permanenti e 23 morti: RaiPlay ripercorre lo scandalo enologico attraverso la testimonianza di chi quel dramma lo ha vissuto.
Nel 1986, ormai 35 anni fa, veniva a galla in Italia lo scandalo del vino al metanolo. La faccenda segnò profondamente l’intero settore enologico: si scoprì che numerose aziende vinicole producevano e mettevano in commercio del vino realizzato con miscele di liquidi e alcol metilico. Il prodotto causò gravi lesioni a chi lo consumò, portando 23 persone alla morte.
Il caso è al centro della decima puntata di “Ossi di Seppia. Il rumore della memoria”, disponibile in esclusiva su RaiPlay da oggi, martedì 16 marzo. In seguito allo scandalo, la Camera di Commercio di Asti propose per la prima volta di applicare la DOCG, la denominazione di origine controllata e garantita, per tutti i vini italiani. La misura, dopo il caso metanolo, riuscì a favorire il rilancio del settore enologico.
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Lo scandalo del vino al metanolo scoppiò il 17 marzo 1986, quando l’ingestione del prodotto, acquistato nei supermercati, causò l’avvelenamento e l’intossicazione di diverse decine di persone, prevalentemente residenti nel nord Italia, che manifestarono danni permanenti come cecità o problemi neurologici. Tra gli intossicati morirono in 23.
I carabinieri, avviate le indagini, scoprirono che i casi di decesso erano imputabili a un Barbera da tavola e bianco da tavola, imbottigliato dalla Ditta di Carlo e Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino, in provincia di Asti, e prodotto nelle cantine della Ditta Ciravegna, di Narzole, in provincia di Cuneo.
Il padre e il figlio dell’azienda, Giovanni e Daniele Ciravegna, furono arrestati per aver fornito vino al metanolo e condannati nel 1992 rispettivamente a 14 e a 4 anni di carcere. Le indagini, durate circa cinque settimane, attestarono che le dosi di metanolo venivano utilizzate in modo eccessivo per alzare la gradazione alcolica del vino, ignorandone la tossicità per l’organismo.
In seguito all’inchiesta, si scoprì che le aziende interessate dallo scandalo erano numerose. Quelle inquisite, oltre alle ditte Odore e Ciravegna, furono: la Ditta Fusco Antonio di Manduria (Taranto); la Ditta Giovannini Aldo di Quincinetto (Torino); la Ditta Baroncini Angelo di Solarolo (Ravenna); le Industrie Enologiche Bernardi Primo S.n.c. di Mezzano Inferiore (Parma); la Ditta Piancastelli Roberto di Riolo Terme (Ravenna). Furono inoltre interessate dalle sofisticazioni anche tre province della Toscana: Firenze, Pisa e Lucca.
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Secondo la sentenza del tribunale, i Ciravegna, oltre a scontare gli anni di carcere, avrebbero dovuto anche pagare ingenti sanzioni pecuniarie come risarcimento, per un totale di circa un miliardo di vecchie lire. Tuttavia padre e figlio, dichiarandosi ufficialmente nullatenenti, riuscirono a evitare il pagamento degli indennizzi alle famiglie vittime del loro vino. L’associazione che cura gli interessi delle persone danneggiate dallo scandalo si batte ancora oggi, dopo 35 anni, per ottenere i risarcimenti.
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