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Cronaca

Mostro di Firenze, Mario Vanni: chi era il compagno di merende

Published by
Gabriele Mastroleo

I delitti del Mostro di Firenze tornano a far discutere e sul Nove va in onda uno speciale, Mario Vanni: chi era il compagno di merende.

(screenshot video)

Li chiamavano “compagni di merende”: tutto nasce da un’espressione usata da Mario Vanni, uno degli imputati al processo per i delitti del cosiddetto Mostro di Firenze. Nato a San Casciano in Val di Pesa il 23 dicembre 1927, soprannominato Torsolo e portalettere in pensione, era uno dei sodali di Pietro Pacciani e involontario ‘protagonista’ di momenti grotteschi al processo.

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“Signor Vanni, che lavoro fa lei?”, fu la domanda dei giudici in un’udienza e lui rispose: “Io sono stato a fa’ delle merende co’ i’ Pacciani no?”. Risposta dunque che nulla aveva a che fare con la domanda e che suscitò anche una grande ilarità. Peraltro, il pubblico ministro del processo sostenne la tesi che il “compagno di merende” era stato istruito a dare determinate risposte.

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Chi era Mario Vanni: il processo per il Mostro di Firenze e le sue uscite choc

In realtà, sembra che Mario Vanni sia stato tratto in inganno dalla domanda che nel dialetto toscano ha lo stesso significato di “ma cosa hai combinato?”. Sta di fatto che proprio dopo che lui ebbe pronunciato quella frase, nacque l’espressione che ancora oggi ricorda quel gruppo di amici, che comprendeva oltre al Vanni e a Pacciani anche Giancarlo Lotti e Fernando Pucci. L’ex postino in particolare venne considerato per tutta la durata del processo il principale sodale di Pacciani.

Quello sui “compagni di merende” non fu l’unico momento di involontaria comicità del processo: si ricorda il suo inneggiare a Mussolini e anche un affronto incredibile al PM Paolo Canessa, una frase che se non fosse appunto grottesca farebbe impallidire. Disse in aula Mario Vanni e per questo venne espulso: “Poi ci sarà il Signore che punirà il signor Canessa co’ un malaccio ‘nguaribile che gli toccherà patire come un cane”. Condannato all’ergastolo in via definitiva nel 2000 per soli quattro degli otto duplici omicidi, l’uomo si vide sospesa la pena nel 2004 e cinque anni dopo morì nell’ospedale di Ponte a Niccheri. Da tempo non era autosufficiente e anche durante il processo mostrò evidenti segni di squilibrio emotivo.

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